Rivista Anarchica Online


 

Henry David Thoreau

Henry David Thoreau/
Una penna libertaria

“Quando scrissi le pagine che seguono vivevo da solo, nei boschi, a un miglio di distanza dal più prossimo vicino, in una casa che m’ero costruito da me sulle rive del lago di Walden, a Concord, Massachussets; mi guadagnavo da vivere con il solo lavoro delle mie mani. Vissi colà per due anni e due mesi”. Con queste parole si apriva “Walden, or life in the woods”, saggio datato 1854 e frutto dell’esperienza vissuta dallo scrittore statunitense Henry David Thoreau.
Seguace di R.W. Emerson, Thoreau nacque nel 1817 a Concord, una cittadina del Massachusetts, la stessa cittadina da cui lo scrittore si volle poi allontanare quel 4 Luglio 1845 per dare una radicale svolta alla sua vita.
Questi 2 anni trascorsi sulle rive del lago Walden, oltre ad avere alle loro spalle motivi di carattere politico e sociale, rappresentano una vera e propria forma di “disobbedienza civile”; infatti, pur non dichiarandosi mai apertamente anarchico, Thoreau fu per tutta la sua vita un amante appassionato della libertà ed in più occasioni non mancò di schierarsi in netto contrasto con il suo governo:
“È con vero entusiasmo che sottoscrivo il motto: il miglior governo è quello che governa meno”.
Anche le differenze di classe furono un tema molto caro all’autore che spesso trattò in quella maniera spiritosa ed indiretta tipica della sua penna: “Vesti il tuo spaventapasseri con il tuo ultimo completo, e mettiti nudo accanto a lui: chi non saluterebbe lo spaventapasseri per primo? (…) Sarebbe interessantissimo sapere fino a che punto gli uomini riuscirebbero a conservare il loro rango individuale, una volta spogliati dei loro vestiti”.
Thoreau credeva inoltre nel dovere comune di ribellarsi in maniera pubblica e non-violenta ogni qualvolta ci fossimo trovati di fronte ad una legge ingiusta o ad ogni altra forma di sotterfugio; in simili condizioni disobbedire annulla persino il significato del termine stesso, in quanto una tale azione diventa una responsabilità per ogni uomo che si possa definire tale.
Per l’autore le leggi erano una limitazione alle libertà individuali e molte volte erano perfino in grado di “rendere uomini di buoni principi in agenti di ingiustizia”. Di notevole importanza era per lui il fragile rapporto fra leggi e coscienza, che nella vita di ogni giorno entrano spesso in contrasto tra loro.
Proprio la coscienza era alla base della cosiddetta “età dell’oro” di cui Ovidio disse: “Senza costrizione e senza legge, spontaneamente, visse di fedeltà e giustizia. Non c’erano punizioni o paure; né si leggevano parole tremende”. Di fatto le punizioni non trovavano ragione di esistere in questo mondo dove nemmeno le azioni meritevoli di pena avevano una ragione per concretizzarsi. “Se quest’anno un migliaio di persone non pagassero le tasse non si tratterebbe di un’azione violenta o sanguinosa come sarebbe invece pagarle e così permettere allo stato di commettere violenze e versare sangue innocente”: molto probabilmente queste erano le parole che Thoreau si ripeteva quando nel 1846 decise di opporsi al pagamento di una tassa da lui considerata ingiusta e per cui venne incarcerato.
Pertanto l’autore può essere considerato uno dei padri fondatori della protesta non violenta da cui molti nel corso degli anni presero spunto, fra cui lo stesso Martin Luther King ed il Mahatma Gandhi.
Un’intera opera fu inoltre dedicata da Thoreau all’attivista John Brown che nel corso della sua vita fu sempre in prima linea nella lotta allo schiavismo; nell’apologia “A Plea for Captain John Brown” lo scrittore denuncia il trattamento riservato dallo stato a quest’uomo, la cui unica colpa fu quella di seguire la sua coscienza e pertanto lottare contro ciò che credeva ingiusto: “un uomo simile occorrono secoli, a produrlo, secoli a capirlo (…) è un uomo tale che il sole potrebbe non alzarsi più su questa terra oscura (…) e il solo uso che di lui potete fare è attaccarlo al capo d’una corda?!”.
Senza dubbio nella letteratura di Thoreau ebbe un ruolo fondamentale la natura, che per lui divenne il mezzo attraverso cui assaporare la vera essenza della vita, senza dogmi e senza confini, una sorta di bisogno a cui la sua persona non poté sottrarsi, come lo stesso “Buck” di “The call of the wild”, un taglio netto al superfluo in modo da “abbracciare solo i fatti essenziali della vita”, e pertanto, una regressione fino alle origini “per non scoprire in punto di morte che non si era vissuti”.

Alessio Gentili

 

 

Un convegno
Su Passannante (e sui Savoia)

Il convegno su Giovanni Passannante, svoltosi a Savoia di Lucania (Pz), lo scorso 10 dicembre, è un passo nella lunga traversata che porterà i salviani al referendum per cambiare o meno il nome del piccolo paese lucano. Disputa che va avanti da circa 30 anni, tra coloro che intendono continuare a chiamarlo Savoia di Lucania, come imposto nel 1879 da Umberto I per lavare l'onta di aver dato i natali a Giovanni Passannante, attentatore del re, e coloro che vogliono tornare al nome originario del paese, Salvia, in onore di quella bella piantagione che si stendeva sulle radure lucane a fine '700, e soprattutto come forma di riscatto per la tragica e prolungata agonia del giovane Passannante, ad opera del neo-nato regno d’Italia.
Gli interventi sono appassionanti, a partire da quello di Antonio Ciano, autore di diversi libri decisamente contro i Savoia, in cui ribadisce la sua storica proposta: via tutti i nomi dei Savoia dalle nostre vie, dai nostri corsi principali. Chiede ai presenti come sia possibile, alla luce di quanto ci è noto rispetto all’operato savoiardo, che il loro paese porti ancora questo nome. Quasi a voler tutti i costi ricordare quella pagina vergognosa della storia d’Italia unita in cui è scritto per sempre che la grazia regale può trasformarsi, per regio decreto, in trattamento disumano.
Giuseppe Galzerano, autore di un volume sull'attentato, ricorda che fu un ufficiale dei carabinieri a sostenere in un rapporto che l'idea dell'attentato non era affatto maturata a Salvia, quasi a voler escludere Salvia da eventuali ritorsioni. Galzerano ricorda anche un articolo di un giornalista del 1904 che visita Passannante nel carcere di Montelupo Fiorentino in cui afferma che ha trovato un uomo incarcerato, ma coerente perchè radicato nelle sue convinzioni e passioni.
L’avvocato Antonio Pepe, invece, mostra la questione Passannante dal punto di vista giuridico, concentra la sua attenzione sui vizi formali del processo, mettendo in luce l’anacronismo di una condanna eccessiva rispetto al progresso che la coscienza comune stava sviluppando in un panorama europeo ben più evoluto, in cui torture e condanne a morte erano già superate da tempo, come dimostra l’abolizione nel Granducato di Toscana, nel 1786. Illustra, inoltre, attenuanti e aggravanti che non furono considerate durante il processo, e che avrebbero innegabilmente evitato quella sentenza di morte: confessione, miseria, rapporto con il re, etc.
Gli altri interventi spaziano tra la storia, le riflessioni, le proprie esperienze in rapporto al «caso Passannante», che da anni, soprattutto nei più recenti, continua ad appassionare storici e studiosi per via del curioso iter che lo ha visto protagonista anche dopo la morte.
Ma la sensazione, a fine convegno, è che ci si concentri sempre molto sulla diatriba della nomenclatura e troppo poco su «Giovanni Passannante». Non l’«attentatore», non il «povero cuoco», non «colui che ha subito la feroce vendetta del re», ma l’Uomo, con il suo pensiero rivoluzionario, con il suo grido di dolore, che pure nella disperazione mai ha ritrattato il suo operato, che nella follia a cui volutamente è stato portato (lui che pazzo davvero non era) alla fine dei suoi giorni ancora ripeteva parole quali «fratellanza», «benessere», «popolo». Quel popolo che l’ha dimenticato sotto il livello del mare, e per il quale egli auspicava istruzione, tribunali, informazione, sanità. La sua storia è tornata alla ribalta dopo un secolo di silenzio, o peggio, di menzogne, quelle che scrivono i vincitori di una battaglia combattuta con armi impari. Ma oggi la storia di Passannante sta ritrovando il suo spazio sui saggi storici, a testimoniare che se la storia la scrivono i vincitori, a volte anche i vinti, nel silenzio di una teca in cui vengono esposti, riescono a dire la loro.
E se è vero che la vita è un viaggio, come ha sostenuto il prof. Faggi nel suo appassionato intervento, meglio viaggiare informati…

Bruna De Palo
bruna.depalo77@gmail.com

 

 

No Expo 2015/
Riprendere a sognare (e a lottare)

“Quando si governa non c’è più tempo e possibilità di rincorrere utopie e così, lentamente ed inesorabilmente, la politica diventa sempre più indistinta nelle caratteristiche fondanti ed operative dei diversi schieramenti. Sempre più governata dalle regole e dalle convenienzedell’economia. L’abbiamo già visto con la TAV perché dovrebbe essere diverso con EXPO e PGT.
Chi abita i territori e le città, i movimenti di lotta e le situazioni autorganizzate, chi vorrebbe un altro modello di città e di vita sono definitivamente soli e solo a loro, e a noi tutti, tocca e spetta il gravoso ma necessario compito di lottare per una qualità della vita radicalmente diversa e per un altro mondo possibile, per noi e per chi verrà dopo di noi”.

Così finiva l’ultimo numero del giornale dal titolo anticipatore Shock Expo. L’ultimo dell’era Morattiana.
Ora, passati sette mesi di attese e di consapevolezze continue rispetto a scelte operate all’insegna di quel sano realismo di chi fa politica nelle istituzioni, obbligatorio quando si devono affrontare sfide e cambiamenti epocali, la misura comincia ad essere colma.
EXPO 2015 si farà essendo una grande opportunità, senza che nessuno abbia ancora risposto in modo chiaro e convincente alla domanda: per chi e per fare cosa. Ma la convinzione sempre più diffusa è quella di una grande occasione mancata aver rinunciato alla proposta turca di lasciare Expo a Smirne, recuperando i soldi spesi fin’ora ed evitando di buttare risorse importanti in un’impresa dal futuro incerto che meglio potevano essere nvestite in una città e in un paese falcidiati dalla crisi e dalle manovre governative.
Una città e un paese affamati di manutenzione dell’esistente (case, strade, ferrovie e territorio), di nuove opere a favore dei cittadini e non di grandi opere a favore della speculazione immobiliare e finanziaria, dei grandi gruppi industriali e delle cordate legate ai capitali mafiosi.
Il PGT è stato revocato per valutare osservazioni, pareri e controdeduzioni di cittadini e Associazioni neanche formalmente considerate dalla giunta precedente, ma senza mettere in discussione uno strumento urbanistico, nato da una pessima legge regionale, che ha voluto la deregulation totale del mercato immobiliare attraverso la perequazione. Uno strumento decisamente mirato alla salvaguardia dei diritti (edificatori, e quindi di reddito) e non alla pianificazione dei diritti della città pubblica, stabilendo una norma che regola una classifica, in cui hanno dignità di diritto solo i fattori che producono edificazione. Una norma dove, come dice lo stesso PGT,
“Il problema di maggior rilievo per l'amministrazione risiede nella possibilità, per ogni proprietario di un diritto edificatorio, di trovare un acquirente, e quindi, in altri termini, di essere indennizzato per la mancata valorizzazione del proprio terreno destinato a finzioni collettive”.
Invece di rafforzare la pianificazione pubblica e collettiva della città ed i relativi strumenti di governo reale e di controllo il PGT in esame mina alle fondamenta tutto questo. Al suo posto ci voleva un PRG più forte, vincolante e strategico di quello vigente. Un nuovo PRG condiviso e partecipato da chi la città la abita, la vive e l’attraversa tutti i giorni. Un nuovo e più dinamico strumento di pianificazione urbanistica che limitasse al minimo l’interesse di pochi valorizzando al massimo la città e il territorio di tutti. Uno strumento che definisse gli strumenti concreti di un reale autogoverno dei territori metropolitani.
Si sarebbe dovuto fare una battaglia ideale e sostanziale anche istituzionale, ancora possibile, contro la volontà formigoniana di gestire tutta l’urbanistica lombarda in modo autoritario e centralizzante.
Una battaglia che doveva e dovrebbe vedere coinvolti i Comuni insieme ai cittadini e alle cittadine contro una gestione delle città che non tiene presente i bisogni collettivi ma solo degli interessi economici particolari.
Bisogni come case di edilizia pubblica e popolare in affitto alla portata di precari, disoccupati e poveri, vecchi e nuovi, e non appartamenti in housing sociale, che non sono la stessa cosa, magari assegnati con la formula del patto di futura vendita. Bisogni come più verde e stop al consumo di suolo in una città sempre meno inquinata perché più a misura d’uomo e meno di automobile.
Per una vera inversione di tendenza non basta un po' di restyling burocratico ad un pessimo PGT e qualche contentino qua e la per qualche soggetto fra i presentatori di osservazioni e pareri. Oltre tutto questo in questi ultimi mesi i giornali annunciano, a seguito di dichiarazioni istituzionali, la necessità di privatizzazione e vendita di quote delle aziende pubbliche per fare cassa, SEA insegna, e nuovi aumenti di tasse e tariffe.
Ma i soldi continuano a non bastare, il buco lasciato dalla giunta Moratti non si riempie e il futuro, già difficile per tutti, sipreannuncia pieno di incognite e di scelte “obbligate” Ma non si mettono in discussione le scelte fatte su EXPO e quelle intuibili sull’urbanistica.
A questo punto, prendendo atto della realtà, non resta che riprendere a sognare e a lottare per un’Altra Città Possibile che significa un altro modo di viverla e di trasformarla, calibrando il tutto con e per le donne e gli uomini che la vivono, la abitano e la attraversan quotidianamente.
Un’Altra Città Possibile caratterizzata da una dimensione democratica intesa come partecipazione diretta e solidale nella gestione del patrimonio comune, delle risorse e della vita collettiva, dove contrapporre al PGT un Progetto, collettivo e orizzontale, di Autogoverno dei Territori che la compongono.
Un progetto che veda emergere, dentro una città dove si sta tessendo la rete del profitto speculativo e del disciplinamento sociale, una forza sociale che possa fermarla costruendo una dimensione metropolitana alternativa di lotta e di socialità.

Comitato No Expo
(Milano)
info@noexpo.it

 

 

Modena/
In piazza per ricordare l'eccidio

7 aprile 2012.
Il comune ci fa guerra
e che guerra sia.

Il 2012 è l'anno del centenario dalla fondazione, avvenuta a Modena nel novembre 1912, dell'Unione Sindacale Italiana, ci sembrava legittimo ricordare, come facciamo tutti gli anni, l'eccidio del 7 aprile 1920 in piazza Grande.
Invece nel 2012 ci troviamo in Piazza Grande il mercato dell'antiquariato.
Ovviamente i capi del comune hanno pensato bene di non fare il mercato il 25 aprile e neanche il Primo Maggio, cosa che ci avrebbe visti contrari, perché giustamente ritengono che in quei giorni la piazza debba ospitare le legittime manifestazioni dei modenesi.
Perché allora il 7 aprile piazza Grande non rimane a disposizione di chi vuole ricordare l'Eccidio del 1920?
Perché come fece il fascismo in tutto il periodo del suo governo, anche i vincitori democratici negano quell'Eccidio?
Ma noi, in Piazza Grande il 7 aprile 2012 ci saremo lo stesso. Ci scusino i bancarellari del disturbo, ma non intendiamo rinunciare a quel ricordo, anzi quest'anno abbiamo pensato al ricordo ancora più in grande.
Invitiamo la cittadinanza a partecipare numerosa, invitiamo la Modena ribelle a rendere omaggio a chi fu ucciso per difendere la libertà di manifestare.
Invitiamo tutta l'Unione Sindacale Italiana ad essere presente a questo pezzo della nostra storia, a rafforzare questo legame con il nostro territorio che vogliamo più stretto ancora.

Unione Sindacale Italiana - AIT
sezione di Modena
www.libera-unidea.org

 

 

Quelle armi micidiali
Che uccidono “dopo”

Alla base dei difetti congeniti nei neonati vi possono essere innumerevoli cause. Si riconosce una importanza ai fattori ambientali i quali, di concerto con fattori genetici ed epigenetici, possono provocare malformazioni come, tra le altre, l’anencefalia, la spina bifida e difetti a carico del cuore e degli arti. Innumerevoli sono le fonti ambientali riconosciute o sospettate essere implicate in queste patologie. Tra queste troviamo i metalli pesanti che, in virtù di un ampio spettro d’azione (agendo, ad esempio, da teratogeni, mutageni e metallo-estrogeni), possono rappresentare un grave rischio per la salute riproduttiva della popolazione e per i neonati, in particolare laddove avvenga un accumulo repentino, per qualsiasi causa, di queste sostanze nell’ambiente. L’acqua potabile può fungere da veicolo dei metalli pesanti, ma questi possono anche essere introdotti nell’organismo con la respirazione o per contatto attraverso la pelle.
Un recente studio condotto dal gruppo di ricerca del New-weapons Committee, al quale afferiscono alcuni ricercatori italiani, ha cercato di gettare luce sugli allarmanti rilievi aneddotici dei medici del Fallujah General Hospital sullo stato riproduttivo della popolazione e sulla salute dei neonati in quella regione dell’Iraq. Già L’Independent segnalava 24 luglio 2010 il drammatico aumento di morte infantile, di leucemie, tumori e di difetti alla nascita in Fallujah. Lo sforzo dei ricercatori è culminato col rilevare l'aumento dei difetti congeniti alla nascita associato a una quantità anormalmente elevata di metalli pesanti nei capelli dei bambini malati e dei loro genitori.
Lo studio ha coinvolto 56 famiglie in cui sono avvenuti difetti e malformazioni neonatali e 11 famiglie “sane” di controllo. Lo studio prevedeva la quantificazione dei metalli pesanti nei capelli dei soggetti, ossia nei neonati e nei loro genitori, e la compilazione di un questionario sulla storia riproduttiva delle famiglie coinvolte. Lo studio ha coperto il periodo compreso dal novembre 2009 al settembre 2001 e in questo lasso di tempo si sono registrati 5.896 nascite delle quali 869 (14,7%) con difetti alla nascita. Tra questi venivano inclusi anche gli aborti e i morti alla nascita. Questa quota è significativamente maggiore della percentuale di neonati con difetti alla nascita normalmente riscontrata nella popolazione generale (circa il 6%). Grazie all’uso dei questionari è stato escluso, inoltre, che le malformazioni e i problemi riscontrati nella popolazione neonatale fossero da ascrivere a eventuali difetti genetici preesistenti nella famiglia considerata. Ma il risultato notevole dello studio è aver rilevato quantità elevate di alcuni metalli pesanti potenzialmente pericolosi nei capelli dei soggetti. Questi erano 32 neonati con difetti alla nascita, 13 bambini tra 6 mesi e 7 anni, i rispettivi genitori più i controlli “sani” . Tra i metalli trovati in quantità elevata vi erano il vanadio, il cobalto, il piombo e l’uranio, tutti aventi un potenziale mutageno e teratogeno.
Un precedente studio ha rilevato la presenza di un’elevata quantità di metalli pesanti nelle ferite dovute alle cosiddette armi senza frammenti nella popolazione di Gaza sottoposta agli attacchi israeliani nel 2006 e 2009. Queste nuove armi non convenzionali, presumibilmente sperimentate dall’esercito d’Israele a Gaza, potrebbero esporre la popolazione a gravi rischi, come mutazioni al corredo genetico. Inoltre, negli ultimi sei anni si stanno accumulando report su un aumento del numero di malformazioni alla nascita, tumori e patologie riproduttive e croniche nelle zone dell'Iraq più severamente colpite dalla guerra. Oltre a ciò, sono state rilevate sindromi simili nel personale militare e paramilitare di ritorno dalle missioni di guerra.
Nonostante che in un recente articolo apparso su Haaretz il presidente del Congresso Ebraico Europeo Moshe Kantor abbia frettolosamente tacciato queste e altre ricerche di antisemitismo, la solida base empirica e quindi sperimentale di tali studi non permette di accettare tale interpretazione dei fatti.
Solo recentemente la WHO ha iniziato un monitoraggio della situazione irachena tuttavia, considerando i dati finora in nostro possesso, è urgente una presa di coscienza condivisa su quali possano essere gli effetti a lungo termine dell'uso di determinate armi, come quelle senza frammenti, le cui conseguenze sulla popolazione sono, se non del tutto sconosciute, in gran parte sottostimate.

Domenico Lombardini

 

Giovanni Pedrazzi

 

Ricordando
Giovanni Pedrazzi / Il Pedro, cioè i COBAS del marmo

Grave lutto per il movimento sindacale e per tutti i libertari. L’8 gennaio 2012 ci ha lasciati, a 73 anni in seguito a grave malattia, Giovanni Pedrazzi di Miseglia (Carrara) detto “Pedro”, sindacalista e organizzatore dei COBAS del marmo. Il suo percorso di vita, segnato dall’impegno diretto, duro e caparbio per la causa dei lavoratori e dall’approdo agli ideali anarchici in età matura, ci fornisce una visuale panoramica, straordinaria e critica, sia sugli ultimi decenni delle vicende novecentesche del sindacalismo italiano, sia su quella eccezionale e coinvolgente stagione di lotte “dal basso” che caratterizzò gli anni Ottanta. L’irruzione sulla scena sociale di quel periodo – in un contesto decadente di egoismi e rigurgiti individualisti – di nuove soggettività nel mondo del lavoro e di prassi organizzative di autogestione e di azione diretta che sembravano nuove, ma che erano antiche, mettono in connessione quelle battaglie con le omologhe di settant’anni prima. Succede per i macchinisti delle ferrovie, che fondano il COMU richiamandosi all’esperienza dell’« In Marcia! » ed alla figura epica di Augusto Castrucci; succede per i cavatori di marmo che rifondano la loro associazione di classe nel nome di Alberto Meschi.
A sedici anni Pedro esercita il mestiere di famiglia, ossia il cavatore. Quella è la sua “università”, ed è lì che apprende i rudimenti del mestiere di sindacalista, è lì che sviluppa la sua grande sensibilità umana ed interiorizza il senso di giustizia sociale. Specializzatosi in impianti elettrici, passa per un certo periodo di tempo a lavorare nel settore edile, dove inizia la sua attività di organizzatore occupandosi soprattutto di diffondere una coscienza antinfortunistica nei cantieri. Salute e sicurezza sul posto di lavoro continuano ad essere la cifra che caratterizza il suo intervento anche nella successiva lunga esperienza lavorativa alla Montedison dove promuove, nel 1978, un lungo sciopero a oltranza di ben 17 giorni che coinvolge i lavoratori delle imprese. Dirigente sindacale della UIL (e lo sarà poi della autonoma CONFAIL), si occupa di portuali e lavoratori del mare stipulando il primo contratto integrativo provinciale di categoria, impegnandosi contro lo sfruttamento bestiale dei marittimi imbarcati sulle navi battenti bandiere ombra. Nel sindacato locale dipendenti commercio segue poi importanti vertenze con la Standa.
Agli anni Ottanta risale la fondazione dei COBAS marmo ed il suo contemporaneo avvicinamento al movimento anarchico, tramite soprattutto il rapporto di amicizia che stringe con Alfonso Nicolazzi. Ogni Primo Maggio a Carrara la sua presenza sul palco al comizio degli anarchici era diventata un appuntamento fisso.

La sua caratteristica principale – ha scritto la stampa locale – era sicuramente la voglia di lottare contro le ingiustizie. Prendeva a cuore una causa, e non si arrendeva fino a che non vedeva dei risultati. Innumerevoli le campagne portate avanti come Cobas del marmo, a forza di assemblee, scioperi, manifestazioni. Conosceva le cave una per una, aveva delegati praticamente ovunque, con le periodiche assemblee di canalone riusciva ad avere il polso delle necessità dei cavatori. Fra le battaglie degli ultimi vent'anni, sicuramente quella per la sicurezza sui luoghi di lavoro e in cava in particolare. Ogni incidente, anche piccolo, era una ferita anche per il Pedro; era la sua priorità assoluta, quella di migliorare le condizioni di sicurezza per i lavoratori. Ma non si può non citare anche l'ultradecennale battaglia, a ogni livello, per il riconoscimento a tutti i cavatori dei benefici del lavoro usurante…”

Figura molto popolare a Carrara, Pedrazzi affiancava da sempre alla sua attività di organizzatore sindacale e di lotte sociali (come ad es. nel comitato anti Gaia per l’acqua bene pubblico) l’impegno culturale. Promuovendo convegni studio su Alberto Meschi, pubblicando il romanzo in due volumi: Racconto di Paese e Ardori ideali (Racconto di paese parte seconda), Carrara, Edizioni Cooperativa tipolitografica editrice, 2003.

Funerali anarchici per Pedro, accompagnato dai “suoi” cavatori e con una grande partecipazione popolare.

Giorgio Sacchetti

Il brano che segue, intervento di Pedrazzi tratto dal volume: “A memoria dei cavatori apuani. Convegno di studi sul sindacalismo libertario di Alberto Meschi”, La cooperativa tipolitografica, Carrara 1994 (pp. 54-55), racconta di una battaglia sfortunata condotta dai COBAS del marmo nel 1992. Cronaca di una lotta che ha visto soccombere le ragioni dei lavoratori, e da cui c’è molto da imparare…

“…Oggi se [Meschi] fosse ancora vivo, cosa penserebbe della Camera del Lavoro attuale? Dei suoi dirigenti? Riproverebbe le stesse delusioni patite quando i Di Vittorio, i De Ambris, i Corridoni, tutti compagni di cordata del sindacalismo rivoluzionario e militanti dell’Unione Sindacale Italiana, presero altre strade a causa dell’interventismo? È difficile dare una risposta ma, una cosa voglio dire: il servilismo dei capi attuali del sindacalismo moderno nei confronti di governo e Confindustria, lo farebbe senz’altro reagire con rabbia e con sdegno spronando di nuovo i lavoratori alla lotta!! Per quanto ci riguarda, abbiamo tentato e continueremo come già detto, di risvegliare la coscienza un poco assopita dei cavatori alla lotta. E qui è necessaria una breve sintesi della quasi rivolta operaia del luglio ’92. Infatti tale lotta durata dieci giorni aveva l’obiettivo primario di unificare i lavoratori dipendenti e lavoratori della cooperazione unificando il movimento, ritrovando la nostra smarrita dignità, e conquistare l’integrativo ed avente al centro la legge 5/60 alla quale non abbiamo mai rinunciato e mai rinunceremo.
In parte questo obiettivo era stato raggiunto.
Mai si era vista da oltre trent’anni una partecipazione ed una compattezza alla lotta da parte dei cavatori. Si sono rivisti i fuochi di notte ai posti di blocco voluti dai lavoratori i quali impedivano che l’escavato fosse trasportato a valle. Si sono rivisti i vecchi cavatori già in pensione, i ragazzi e le donne che portavano agli scioperanti sentinelle sotto il sole cocente del giorno e la brina della notte, le vettovaglie ai loro mariti ai loro padri fratelli e figli impegnati nel lungo braccio di ferro. Si è rivista anche la solidarietà fattiva dei rifornitori delle mense in cava che inviavano pasti caldi ed altri generi alimentari ai cavatori in lotta. Tutto ciò ci ricorda le cucine comuniste del passato ai tempi della serrata padronale del 1913/14.
Gli imprenditori spaventati da un simile comportamento operaio, questa è la nostra convinzione, pensarono bene di interpellare i cosiddetti confederali squalificati agli occhi delle masse, concordando con essi un inizio di trattativa. Suggerendo loro di amalgamare le piattaforme presentate. Infatti esistevano due piattaforme una era la nostra frutto di un referendum fra lavoratori e l’altra era quella dei confederali elaborata dai loro organismi dirigenti. Dietro la spinta dei lavoratori accettammo di incontrarci con la Triplice presso la sede della Cooperativa cavatori Canal grande per trovare un punto d’accordo. Nella sede summenzionata, dopo una giornata di intense trattative, si arrivò a siglare una intesa ed a elaborare una linea unitaria da portare avanti all’incontro del 27 luglio.
Dopo discussioni anche aspre, ci si accordò anche per partecipare alle trattative con una nostra delegazione […] Ci recammo nella sala di rappresentanza del comune di Carrara a spiegare ai lavoratori i contenuti dell’accordo. In quella circostanza lo zoccolo duro della nostra organizzazione gridò che si doveva continuare la lotta.
Per quanto mi riguarda, e qui me ne assumo tutta la responsabilità, in accordo con la maggioranza dei cavatori presenti, accettai la sospensione della lotta in attesa del risultato dell’incontro con l’associazione degli industriali che si svolse il 27 luglio [1992]. Eravamo al 22 del mese.
Il 27 non si fece nulla e fu rimandato tutto al 12 settembre. Da quella data l’integrativo si ha ancora da fare […]
In quel frangente cademmo nella trappola dei confederali? Peccammo di ingenuità? Eccedemmo di fiducia? Può darsi… Abbiamo anche pagato per questo. Alcuni nostri compagni non ce l’hanno perdonata!!
Questa breve cronaca di una lotta sta lì a dimostrare la difficoltà di cui parlavo all’inizio sul pensiero attuale di Alberto Meschi…”.

Giovanni Pedrazzi
dal suo intervento al “Convegno studi sul sindacalismo libertario di Alberto Meschi” (Carrara, 20 febbraio 1993)

 

 

Sempre contro gli F –35
Novara, 5 novembre 2011. Manifestazione contro gli F –35. Come le foto
del dossier su questa manifestazione, pubblicate sullo scorso numero,
anche questa è di Roberto Gimmi. La mobilitazione antimilitarista
nel Novarese, nel frattempo, prosegue

 

 

 

Torino, ottobre 1975

 

Torino / Assoluzione
Nell'ex-cinema

Mercoledì 18 gennaio. Il processo per l’occupazione dell’ex cinema Zeta, Cà Neira, si è chiuso con un repentino dietrofront dell’accusa.
Il PM Rinaudo, sostituito per l’occasione da una collega, ha bucato ancora una volta l’obiettivo.
I quattro anarchici accusati di occupazione dell’ex cinema Zeta di via Colleasca sono stati prosciolti dalle accuse per non luogo a procedere.
Un processo che non avrebbe nemmeno dovuto cominciare, perché mancava la querela di parte, necessaria se gli occupanti sono meno di dieci e l’edificio non è di uso pubblico.
Rinaudo ci ha provato lo stesso, tentando di attribuire ai compagni anche la responsabilità dei danneggiamenti alla serranda di fronte all’ingresso principale forzata dai poliziotti al momento dell’irruzione per lo sgombero.
Le foto pubblicate da Cronacaqui ritraevano esponenti dell’antisommossa e della digos che forzavano la serranda. La relazione dei periti ha dimostrato in aula quello che tutti gli abitanti del borgo e buona parte dei Torinesi sanno bene: il vecchio cinema di via Colleasca è abbandonato da molti anni.
Quando si è accorto che le cose andavano male Rinaudo ha pensato bene di fare marcia indietro.
Resta il fatto che in questi anni la procura di Torino ha deciso di trattare come questioni di ordine pubblico le lotte politiche e sociali in questa nostra città, dove ci sono 150.000 appartamenti sfitti, mentre chi occupa le case vuote per restituirle ad un uso pubblico finisce alla sbarra.
Quando, nel dicembre del 2010, gli anarchici della FAI torinese lo occuparono non era la prima volta che la storia del vecchio cinema Zeta si intersecava con le lotte di libertà degli anarchici.
Ne approfittiamo per ricordare un episodio del lontano 1975.
Lo Zeta, allora cinema d’essai, dove proiettavano le pellicole che non passavano dai cinema del centro, venne affittato per una manifestazione antimilitarista. Oltre quattrocento compagni e compagne gremirono la sala.
In quell’occasione Mimmo Pucciarelli, un giovane anarchico campano, lesse una dichiarazione nella quale annunciava la decisione di non fare il servizio militare allora obbligatorio. Dopo l’intervento di Mimmo, la sala calò nel buio. Prima che la polizia potesse intervenire, Mimmo si era dileguato. Si rifugerà in Francia, dove vive ancora oggi, proseguendo nella lotta intrapresa tanti anni fa.

Federazione Anarchica Torinese
(FAI)

 

Franco Mastrogiovanni

 

Caso Mastrogiovanni
Una caporetto in salsa cilentana

Al Tribunale di Vallo della Lucania (SA), martedì 17 gennaio alle ore 15.00, è ripreso il processo contro i sei medici e i dodici infermieri del reparto di psichiatria dell’ospedale cittadino “San Luca” imputati per l’assurda contenzione (durata ottantatre ore) e la conseguente morte, dell’insegnante anarchico Francesco Mastrogiovanni, avvenuta la notte del 4 agosto 2009. La prima udienza del nuovo anno, riservata alla deposizione dei testi della difesa, registra numerosi assenti. Dei testi convocati se ne presentano solo quattro: due infermiere, una paziente e un medico. Il giudice inizia ad ascoltare un’infermiera dell’ospedale di Sapri, che riferisce di aver lavorato nel 2007, per soli due o tre mesi, in quel reparto e, per lei, era tutto regolare; non ha mai visto pazienti legati e tutto procedeva nel migliore dei modi. La stessa versione la dà anche una giovane paziente, che dice d’essere stata ricoverata, in trattamento sanitario volontario, nel 2003-2004 solo per due giorni ed una notte e durante le passeggiate interne al reparto non ha mai assistito a contenzioni né a manifestazioni violente sui pazienti. Il presidente del tribunale, dr.ssa Elisabetta Garzo, fa notare che i fatti raccontati risalgono a molti anni fa e, come sappiamo, nella vita, come nella sanità “TODO CAMBIA”. Dopo questa semplice evidenza viene ascoltato il dott. Olimpio Piccirillo, attualmente in servizio presso l’ospedale di Vallo di Lucania, il quale afferma di aver prestato, per l’ultima volta, la sua opera nel reparto di psichiatria nell’anno 2000, ovvero nove anni prima della morte di Mastrogiovanni. Anch’egli riferisce una buona opinione sui colleghi ma, alla domanda sulla contenzione, risponde con un categorico: “Io non la facevo!” e aggiunge di non essere a conoscenza se i suoi colleghi la praticassero. Quando gli viene chiesto quale sia il titolo di studio posseduto risponde di essere laureato in medicina con specializzazione in gastroenterologia, ma di essere stato ugualmente utilizzato nel reparto di psichiatria. Il dott. Piccirillo, come gli altri testi, riferisce fatti e situazioni cronologicamente molto lontani dalla vicenda oggetto del processo. Quando poi viene chiamata a deporre la sig.ra Cirillo, un’infermiera del reparto di psichiatria attualmente imputata, scoppia il panico: l’usciere, al quale aveva dato il proprio nome all’inizio dell’udienza, la cerca per tutto il tribunale ma, della teste, non c’è traccia! La donna, probabilmente in preda al terrore, si è data ad una precipitosa fuga. In un clima generale di meraviglia e angoscia il presidente del tribunale, dr.ssa Elisabetta Garzo, visibilmente contrariata, richiama severamente i difensori degli imputati alla responsabilità dei loro atti, ricordando quanto stabilito nell’ultima udienza del 2011: entro il 31 gennaio devono essere improrogabilmente sentiti tutti i testi degli imputati perché il processo deve andare avanti. La spettacolare e brevissima udienza del 17 gennaio è durata circa mezz’ora e Giuseppe Galzerano, editore e scrittore, nonché componente del Comitato Verità e Giustizia, intervistato da una TV locale, ha affermato con un pizzico d’ironia: è stata una vera Caporetto per i difensori e per gli imputati.
Martedì 31 gennaio 2012, presso il Tribunale di Vallo della Lucania, nel corso di un’udienza lunga e travagliata, la presidente, Dott.ssa Elisabetta Garzo, ha ascoltato 14 dei 20 testi della difesa presenti in aula. Un Amarcord collettivo, a dir poco scontato, che ha tinteggiato le figure del personale medico e infermieristico come brave persone, dedite al loro lavoro, precise e rispettose dei diritti del malato. Peccato che tutte queste deposizioni cozzano non solo con le dichiarazioni del consulente dell’ASL 3 di Salerno, Prof. Palmieri ( che ha sottolineato le negligenze omissive e commissive del personale sanitario) ma con la realtà del video dell’orrore, intorno al quale, ricordiamo, gira gran parte del processo. Ancora una volta, quindi, le varie linee difensive si basano sui ricordi di pazienti, amici e colleghi che testimoniano di comportamenti passati mentre ciò che serve al processo è capire cosa, come e perché sia potuta accadere, nell’estate del 2099, una vicenda così tragica quale quella di Mastrogiovanni. Nir Baram nel suo ultimo romanzo “Brave persone”, edito da Ponte alle Grazie, riporta un passo emblematico: “Condannare a morte indirettamente, tramite un ordine, scrivere carte grazie alle quali una catena di eventi che sfuggono alla vostra vista conducono alla morte degli altri? In questo caso i gentiluomini come noi eccellono…”. Siamo circondati quindi da brave persone, da gentiluomini. “Siamo tutti brave persone, che non significa, necessariamente, essere buone persone. Significa essere persone che si comportano in maniera corretta in circostanze normali. Rispettose delle leggi e, pur senza eccessi di generosità, amanti dei propri simili”. Quanti, tra infermieri e medici in quelle lunghe e strazianti giornate di contenzione all’ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania, di fronte all’estrema sofferenza di Franco, si sono posti domande? Cosa ha spinto gli operatori sanitari ad assumere i panni di testimoni non soccorritori? Come se non bastasse alcuni legali della difesa hanno chiesto, alla presidente del Tribunale, di evitare che la prossima udienza si svolga nella data prevista del 14 febbraio 2012 perché, in quel giorno, cade la festa degli innamorati. È vero, c’è l’amore di ogni giorno e c’è il giorno dell’amore ma, purtroppo per gli avvocati richiedenti, la Dott.ssa Garzo ha ricordato loro che è solo una delle tante feste consumistiche e che, quindi, il 14 febbraio, essendo un giorno lavorativo come gli altri, ci si vede tutti in aula. Purtroppo, oltre alla “banalità del male” ci si deve difendere anche da altre banalità consumate, ancora una volta, senza un minimo di rispetto verso il dolore dei famigliari, degli amici e dei compagni dell’insegnante libertario.

Angelo Pagliaro

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